IL CASO CESARE BATTISTI: QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

Il testo che proponiamo dal titolo Una storia di cui ancora non si riesce a fare la storia, è uno dei tre pezzi che compongono il lavoro collettaneo Il caso Cesare Battisti: quello che i media non dicono pubblicato nel 2009 da DeriveApprodi. Il documento, a firma della redazione di DeriveApprodi, prende spunto da una lettera scritta nel 2004 al quotidiano Le Monde da due ex imputati del processo 7 aprile 1979 in occasione della richiesta del governo italiano a quello francese di estradare Cesare Battisti, rifugiato in Francia dal 1981. Il contenuto si concentra su tre temi: la funzione di reiterata criminalizzazione dei media – tramite una campagna forsennata e spesso menzognera contro la figura e la vicenda di Cesare Battisti – delle lotte e dei movimenti rivoluzionari degli anni Settanta; gli esiti nefasti nelle relazioni sociali del Paese di una legislazione antiterroristica d’emergenza che ha minato le fondamenta dello Stato di diritto; la necessità di una soluzione politica amnistiale per i conflitti politici armati del decennio Settanta.


Una storia di cui ancora non riusciamo a fare la storia

Il caso Cesare Battisti è riesploso in concomitanza con il trentennale di un altro famoso caso politico passato alla storia con il nome di 7 aprile, data dell’arresto, appunto trent’anni fa, di decine di militanti dell’area politica denominata Autonomia operaia.

Si trattava di operai, professionisti, intellettuali ai quali venne imputato di aver ideato, organizzato e messo in opera un’«insurrezione contro i poteri dello Stato» avvalendosi della direzione di tutte le organizzazioni armate esistenti, a partire dalle Brigate rosse. Un reato da ergastolo. In attesa del processo quei militanti furono rinchiusi nelle carceri speciali dove scontarono, in virtù di una legislazione di emergenza che minò irreversibilmente le basi dello Stato di diritto, una carcerazione preventiva abnorme. Dopo sette anni, la grande maggioranza degli imputati furono assolti e rimessi in liberta senza che alcuna istituzione o personalità dello Stato si degnasse di proferire una parola di scusa o avviasse una qualche forma di risarcimento.

Per il caso 7 aprile qualcuno coniò una definizione calzante: «processo a mezzo stampa». Moltissimi operatori dell’informazione svolsero infatti un ruolo determinante nella criminalizzazione degli imputati. Ruolo svolto poi con solerzia in tutto il seguito repressivo del decennio successivo.

Oggi, in un clima politico di progressiva erosione delle garanzie sancite dallo Stato di diritto, l’informazione rinnova il suo ruolo centrale nella costruzione di un immaginario sociale animato da mostruose figure portatrici di insicurezza e di panico: il migrante, lo stupratore, il terrorista. Il caso Battisti ha offerto l’occasione perfetta per una riedizione in grande stile dell’unanimismo informativo finalizzato alla criminalizzazione, alla persecuzione, alla «mostrificazione». È per queste ragioni che ci è sembrato utile offrire al lettore alcune note informative che provino a stonare il coro di un argomentare mediatico unilaterale, e spesso infarcito di grossolane falsificazioni, sulla questione dell’estradizione o meno dal Brasile di Cesare Battisti. Ma oltre ai citati operatori dell’informazione anche politici di vari schieramenti, insigni intellettuali, giornalisti e magistrati sostengono che negli anni Settanta il nostro Paese non ha vissuto una guerra civile, seppure a «bassa intensità», e che lo Stato di diritto ha saputo conservare le proprie prerogative.

È questa la madre di tutte le menzogne. Gli anni Settanta hanno rappresentato un’esperienza collettiva insieme vasta e profonda, nel corso della quale due generazioni hanno cercato di sradicare i pilastri – apparentemente inamovibili – della società italiana del dopoguerra. Va a questo movimento il merito di aver introdotto nuove forme di relazione all’interno della famiglia, della sessualità, del lavoro, dell’educazione, della creazione, della politica…

Mentre in altri paesi europei l’onda provocata dal ’68 veniva assorbita all’interno delle istituzioni grazie a riforme – ovviamente dall’efficacia variabile ma che comunque tenevano conto delle esigenze delle nuove generazioni –, al contrario in Italia una classe politica poco trasparente e corrotta, avvezza fin dagli anni Cinquanta a reprimere nel sangue le lotte operaie e contadine, ha rifiutato in blocco ogni forma di dialogo con un movimento di studenti in continua espansione che avrebbe finito con il confluire in un’enorme mobilitazione operaia.

Anziché aprirsi a riforme all’altezza di un paese moderno (ricordiamoci che è in questi stessi anni che il diritto al divorzio e all’aborto viene conquistato, contro il volere del governo in carica), si è preferito reprimere e arrestare i manifestanti; e l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di polizia ha provocato non pochi morti.

Parallelamente, l’Italia ha vissuto quello che è stato definito un «terrorismo di Stato», ovvero numerosi attentati omicidiari organizzati da alcune frange dei servizi segreti sfuggiti al controllo e da gruppi di estrema destra: abbiamo allora assistito alle esplosioni sui treni, alle bombe dentro le banche e ai comizi sindacali, vere e proprie azioni di terrore che avevano per fine quello di generalizzare la paura e costringere il paese a ripiegare su posizioni moderate. Si è detto che si trattava di una «strategia della tensione»: destabilizzare per stabilizzare, e i morti si sono contati a centinaia. Come reazione a tutto ciò, una parte del movimento è progressivamente scivolato verso la lotta armata e ha commesso omicidi politici: industriali, giornalisti, sindacalisti, politici, magistrati… Lo Stato ha allora fatto ricorso a una panoplia di leggi speciali, che forse non corrispondevano formalmente a un vero e proprio Stato di eccezione ma che in quegli anni hanno reso possibile l’arresto e la reclusione preventiva di migliaia di persone (il limite era fissato a dieci anni), la pratica della tortura, processi sommari interamente fondati sulla parola di detenuti ai quali era stata promessa la libertà in cambio di confessioni e che avrebbero inventato qualunque cosa pur di uscire di prigione. I dati parlano tristemente chiaro: 36.000 arresti, 6000 condanne, un migliaio di persone rifugiate all’estero; e quelli che pensano che tutto questo non sia vero devono solo andare a consultare i rapporti di Amnesty International di quegli stessi anni.

Qui non si tratta di dire che gli anni Settanta siano stati non violenti, né di farsi passare per angeli o anime belle. L’Italia del dopo ’68 è anche quella dei tentativi di colpi di Stato, dell’infiltrazione della loggia massonica P2 nelle alte sfere dello Stato e della società civile (dobbiamo ricordare che numerosi esponenti della classe politica di quel periodo sono gli stessi che ancora oggi sono protagonisti della vita pubblica della Penisola?), della struttura atlantica militare Gladio che aveva clandestinamente investito i centri del potere, dell’enorme scandalo Lookhead che aveva coinvolto non solo diversi ministri del governo in carica ma anche lo stesso Presidente della Repubblica, poi costretto alle dimissioni. Una corruzione diffusa e profonda, dunque, che è finita col venire alla luce all’inizio degli anni Novanta e che ha provocato la scomparsa formale dei grandi partiti italiani: la storia di «Tangentopoli » è da questo punto di vista solo la conseguenza di decenni di disfunzioni e tangenti, di sovversione e menzogne, di deviazioni e segreti.

Gli anni Settanta sono stati anche tutto questo, e non solo – come alcuni vorrebbero far credere – una sollevazione metropolitana nella quale un esiguo numero di esaltati deliranti, completamente staccati dalla realtà e manipolati da poteri occulti, hanno messo in pericolo una democrazia pacifica, placida e tranquilla. La repressione del movimento degli anni Settanta è durata anni. È passato del tempo. Ben più di un uomo politico si è rifatto una verginità. Da parte loro, i protagonisti degli anni di piombo hanno saldato il conto della loro condanna fino in fondo e a volte ben di più – per la maggior parte in prigione (un resoconto di qualche anno fa segnava un totale di circa 50.000 anni scontati) e per alcuni in esilio, e solo quelli che non hanno vissuto l’esilio possono negare che nonostante le apparenze sia anch’esso una pena esemplare e crudele.

Qui non si tratta di dire che i militanti rivoluzionari degli anni Settanta fossero tutti innocenti. Si tratta semplicemente di ricordare che le leggi in virtù delle quali sono stati incarcerati – e molti condannati – non erano leggi normali. Per quanto riguarda gli innocenti, tutti coloro che sono stati assolti dopo anni di prigione, dopo aver perso il lavoro e a volte la famiglia, hanno subìto una giustizia tragicamente grottesca; per quanto riguarda i condannati, l’ingiustizia non è meno mostruosa. Il caso di Adriano Sofri, condannato a ventidue anni di prigione venticinque anni dopo i fatti che gli vengono contestati, e nonostante continui a proclamarsi innocente, ne è l’esempio più triste. Sofri è innocente, ma è stato condannato alla fine di un processo fiume costellato da dichiarazioni contraddittorie, testimonianze ambigue, prove scomparse, giudici spostati o sostituiti, giudizi cassati e rifatti. A tutto questo ci permettiamo semplicemente di aggiungere: se Sofri fosse colpevole – e non lo è –, questa parodia della giustizia, alla quale è stato sottoposto e della quale lo storico Carlo Ginzburg ha giustamente affermato che assomiglia a un vero e proprio processo di stregoneria, sarebbe stata meno mostruosa?

Sono trascorsi trent’anni. Le persone sono cambiate. Quando ci sono riuscite si sono rifatte una vita. Ma questa storia di cui ancora non si riesce a fare la storia è una ferita aperta. Dopo trent’anni, quando niente assomiglia più a ciò che esisteva allora – né le persone, né la situazione storica – ha ancora un senso voler perseguitare, punire, incarcerare annichilire? Non esiste una prescrizione giuridica per le anime e i corpi che sono diventati altro, quando tutta la loro esistenza ne è la prova? Non rischiamo di trasformare la giustizia – quella che all’epoca è venuta meno in modo tanto crudele – in una vendetta? Una vendetta che ha fatto dell’occhio per occhio il suo credo, ma che non funziona per tutti allo stesso modo.

Le stragi provocate dalla strategia della tensione sono rimaste per la maggior parte impunite. La magistratura italiana ha deciso di archiviare dopo trent’anni di processi le accuse rivolte ad alcuni leader di estrema destra e ai responsabili dei servizi segreti per l’attentato alla Banca dell’Agricoltura a Milano nel 1969: una bomba che ha provocato una vera ecatombe. I responsabili possono dormire tranquilli, a loro non serve amnistia perché sono già amnistiati. Ma per i militanti rivoluzionari non c’è alcuna amnistia. Questa pagina della storia non può essere girata, perché questo significherebbe che si è finalmente deciso di scriverne la vera storia. La sinistra italiana ha rifiutato un’amnistia per timore che Berlusconi e la sua banda ne approfittassero. Berlusconi e la sua banda non ne hanno bisogno, si sono autoamnistiati da soli ormai da tempo.

Gli intellettuali che oggi fanno l’apologia dello Stato di diritto italiano, che secondo loro è sempre stato in vigore negli anni Settanta, sono ciechi, ignoranti o cinici.

Oggi resta ancora irrisolto il problema dell’amnistia politica per gli anni della sovversione armata. Un atto politico giusto perché capace di creare le condizioni utili al ristabilimento della verità sulla storia di quegli anni. Ma questa soluzione è senz’altro ancora impossibile, perché nel nostro Paese continua a regnare un’assenza di trasparenza che non consente alla storia di farsi, a meno che gli attori direttamente coinvolti non decidano di riprendere risolutamente la parola.

L’Italia del XXI secolo ha nei confronti degli «anni di piombo» la stessa difficoltà che a lungo ha avuto la Francia nei confronti del periodo di Vichy o del suo passato coloniale con la guerra d’Algeria. Oggi è il momento di chiedere che, come in Francia, questa storia venga finalmente scritta, affinché essi di essere il tabù della sua memoria.

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