Commercio delle armi: trend in crescita, una vera corsa agli armamenti

A quasi 30 anni dall’entrata in vigore della Legge 185 del 1990 – che, tra l’altro, proibisce la vendita di armi a Paesi in conflitto o che non rispettano i diritti umani – una rete di associazioni della società civile, espressione del mondo laico pacifista ma anche delle Chiese cristiane in Italia, si è incontrata lo scorso primo marzo per fare il punto sullo stato della produzione e l’export di armi e sulle implicazioni italiane in guerre come quelle che tormentano lo Yemen.

Il 4 marzo i promotori – Commissione Globalizzazione e Ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Finanza Etica, Movimento Politico per l’Unità e Movimento dei Focolari, Pax Christi Italia, Rete Italiana per il Disarmo, Ufficio Nazionale per i Problemi sociali e il Lavoro della Cei, Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso della Cei – hanno diffuso il “Documento conclusivo” dell’evento romano, nel quale denunciano il trend in crescita costante delle spese militari, a fronte dei numerosi conflitti ancora aperti nel mondo, che prefigura una «rinnovata corsa agli armamenti».

La proliferazione e il commercio di ordigni è un problema che investe la responsabilità dei produttori ma anche dei soggetti istituzionali «e il ruolo che l’Italia intende svolgere nel contesto internazionale per realizzare il principio e l’impegno sancito nella Costituzione del “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11)».

In merito all’export di armi, la classe politica si deve interrogare dunque sulle responsabilità del nostro Paese nella violazione della Costituzione, della Legge 185, ma anche dei trattati internazionali in ambito Onu e Ue, per i quali «la produzione e l’esportazione di armamenti possono essere giustificati e legittimati solo per permettere l’autotutela dei popoli, per proteggere i diritti delle persone e per salvaguardare la pace e la sicurezza internazionale (Carta delle Nazioni Unite, art. 51)».

In ottemperanza al diritto nazionale e internazionale, le realtà promotrici del Convegno chiedono dunque al governo «di bloccare tutte le forniture di armamenti a Paesi in conflitto e dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani ed in particolare le esportazioni di armi alla coalizione a guida saudita che – come riportano le Nazioni Unite – sta compiendo bombardamenti indiscriminati in Yemen che possono essere considerati “crimini di guerra” alimentando la gravissima crisi umanitaria che sta falcidiando la popolazione yemenita». Dal Palazzo dei Gruppi Parlamentari, nel quale si è svolto l’evento i promotori, si legge ancora nel Documento, invitano il mondo politico a farsi promotore in Italia e in Europa di «un effettivo controllo del commercio di armamenti e di armi leggere e di ripristinate la massima trasparenza non solo nelle Relazioni nazionali sulle esportazioni di armamenti ma in ogni informazione che l’Italia deve presentare a livello europeo e internazionale».

Fondamentale poi, nell’ottica del controllo e del rispetto delle normative, «intensificare i rapporti con le associazioni della società civile, sia per esercitare un controllo più efficace sulle esportazioni di armamenti italiani sia nel caso di modifiche alla normativa vigente».

Le associazioni chiedono anche di spezzare l’odioso ricatto tra produzione di armi e occupazione, iniziando a ripensare il comparto in una prospettiva di conversione al civile, a cominciare «dai settori industriali militari maggiormente in contrasto col principio costituzionale del ripudio della guerra». Anche in questo caso, il riferimento implicito è agli stabilimenti della RWM Italia Spa di Domusnovas, in Sardegna, dove vengono prodotte – in un contesto di povertà e disoccupazione – le bombe destinate alla coalizione a guida saudita responsabili di stragi in Yemen.

La società civile laica e di ispirazione religiosa, si legge in chiusura, proseguirà il suo impegno per sensibilizzare l’opinione pubblica e per promuovere «la crescita di un’economia di pace, rispettosa della vita, dei diritti e della dignità delle persone, la salvaguardia dell’ambiente e un effettivo progresso delle comunità e dei popoli».

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