Sul rapporto tra carcere e costituzione.. Andando oltre le pareti scrostate.

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Il presente testo è frutto del lavoro svolto con i detenuti della casa circondariale di Ivrea, che hanno avuto la possibilità di frequentare il corso di editoria digitale. Lavoro nato dalla voglia, o meglio dalla necessità da parte di alcuni di loro, di far uscire fuori da quelle mura le loro testimonianze ed i loro pensieri.

Di Dott.ssa Annamaria Sergio con i detenuti del carcere di Ivrea

 

Seguire un corso di editoria digitale, trovandosi, a distanza di anni davanti al computer per studiare la Costituzione Italiana, è emozionante. Soprattutto quando si riesce a dare un valore intrinseco a questo percorso, sottolineando che gli argomenti trattati non si riferiscono a questa o quella struttura penitenziaria, bensì rappresentano un’analisi generale tesa ad incrementare un dibattito costruttivo sulla questione.

Qui siamo in carcere, momentaneamente esclusi da buona parte delle norme della Carta Costituzionale. I diritti, così come i doveri sono qualcosa di indefinito. Tutto dipende da qualcosa o qualcuno.

Un direttore piuttosto che un altro; questa o quella politica, di apertura o di chiusura, raramente di lungimiranza, e nel rispetto dello stato dei diritti in senso lato.

Nel lavoro fin qui svolto, non potevamo di certo ignorare gli articoli 3, 13 e 27 della Costituzione, articoli su cui si fonda il nostro Ordinamento Penitenziario.

Se da una parte, oggi, ci troviamo qui, con la possibilità di frequentare un corso di formazione professionale, lo dobbiamo proprio alla nostra Costituzione e agli articoli sopra citati, dall’altra,ci vorrebbero fiumi d’inchiostro per elencare le questioni che ancora oggi, a distanza di settant’anni non funzionano. Infatti, in questa nostra analisi non ci soffermeremo sugli elementiimmediati e sui problemi di carattere strutturale quali: sovraffollamento, muri scrostati, docce rotte, celle sporche, ma cercheremo di andare oltre.

Prendiamo in esame, ad esempio, il terzo comma dell’articolo 27:

le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”

 

In due semplici righe è espresso un concetto di valore e spessore culturale indescrivibile.

Quello che più colpisce, leggendo questo articolo,è che non troviamo la parola “carcere” dopo quella di “pene”. Tant’è che se si ragiona un momento, non può sfuggire che “il senso di umanità” entra in netto contrasto con l’idea di carcere e tutte le sue conseguenze, che, com’è noto, procurano un dolore sottile, ma nello stesso tempo spietato, non solo alla persona che si trova a scontare la pena, ma a tutta la sua famiglia che senza alcuna colpa ne paga le conseguenze.

Questo per dire che i nostri padri costituenti, già all’epoca, avevano lasciato aperta la porta ad un’idea di pena differente da quella del carcere. Non a caso, negli ultimi anni si sta iniziando a ragionare sul concetto di giustizia riparativa, dove la vittima viene posta al primo posto, e a chi ha commesso il reato, viene richiesto di fare dei percorsi particolari fatti soprattutto di condotte riparative, che non hanno niente a che vedere con la vendetta sociale. Da qui un interrogativo sorge spontaneo: le prigioni, quali prodotto, di un sistema strettamente connesso alle fasi di sviluppo socio-politiche-economiche proprie del XVIII e XIX secolo, possono essere considerate valide ed attuali oggi, nel XXI secolo?

Allo stato attuale, se le cose non cambieranno, la pena scontata in carcere non può che continuare ad essere una barbarie senza alcun significato autentico e funzionale, in termine di prevenzione alla legalità e alla sicurezza sociale.

La storia, da duecento anni a questa parte, ci ha insegnato che la prigione è una scuola di delinquenza, di fatto, il carcere incentiva i comportamenti devianti, li stimola, proprio per quell’illegalità che nelle galere è elevata a norma di sistema.

Rimanendo in tema, ci preme fare alcune considerazioni che riguardano l’ultimo comma dello stesso articolo 27 della Costituzione:

Non è ammessa la pena di morte”

Nel nostro Paese esiste tuttora una pena che non può che essere interpretata come la pena di morte. Una pena di morte viva, latente, lenta e sottile, fatta di continue agonie e dove per la speranza non vi è spazio.

Si tratta dell’ergastolo ostativo. Fine pena mai,31/12/9999.

“Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza”.(Carmelo Musumeci)

Attualmente, nelle carceri italiane sono numerosi gli ergastolani che non potranno mai più uscire, anche dopo venti, trenta o addirittura quarant’anni di pena scontata. Vi sono persone che si sono laureate, che hanno fatto dei percorsi di revisione critica ineguagliabili e che in qualche modo sono cambiate, non sono più le stesse persone che erano al momento del reato. Eppure, proprio perché il reato commesso rientra in una norma piuttosto che in un’altra, ancora oggi si trovano costrette a passare il resto dei loro giorni rinchiuse all’interno di una cella. I cosiddetti “sepolti vivi.

Necessario, in questo momento storico, dove ogni giorno assistiamo alla privazione dei nostri diritti fondamentali, è la lotta per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, pena che da emergenziale e provvisoria, ha impiantato le sue radici sul nostro ordinamento penitenziario, affermandosi sempre di più nel tempo.

In questo caso la carta Costituzionale è violata in più parti.

Prendiamo, pertanto, in esame l’articolo 3:

tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge..”

Come mai esistono delle pene che pur essendo uguali in termini di norma fanno distinzione tra una persona e l’altra?

Forse che in carcere non si è più dei cittadini eguali davanti alla legge?

O forse perché una volta entrato in questo “mondo” non ti vengono più riconosciuti i dirittifondamentali, così come gli altri cittadini“liberi”?

Non dovrebbe essere così, in quanto, il carcere in realtà è un vero e proprio quartiere della città che lo ospita. Non è una realtà a sé stante.

Il carcere non è un mondo a parte rispetto alla società esterna, non esiste un carcere grigio rispetto al mondo colorato che lo circonda, un carcere disumano rispetto alla società integrata e plasmata sui bisogni dell’uomo.

Le galere sono lo specchio delle società esterne, regolate da codici e leggi che sono il riflesso proporzionale all’evoluzione culturale della società stessa. La stragrande maggioranza delle persone, non riesce a cogliere questo aspetto, in quanto nella mentalità dell’opinione pubblica il carcere è considerato una discarica, “perché li dentro trovi di tutto!”

Poi come tutte le discariche, basta alzare i muri sempre di più alti, cosi la gente di fuori non puó ficcarci il naso!

Citeremo di seguito il quarto comma dell’articolo 13, lasciando a voi tutti la possibilità di riflettere su queste parole:

“E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”

Vorremmo concludere questa nostra riflessionecollettiva evidenziando di fatto, come, nonostante le disposizione legislative e le varie riforme susseguitesi nel tempo, la prigione non può cheessere definita come un’istituzione secolarizzata, cristallizzata, un istituto invalicabile il cui impianto normativo è stato solo leggermente scalfito, ma mai completamente rivisitato.

Concluderemo questo nostro lavoro riportando di seguito una citazione estratta dal libro, di Salvatore Ricciardi “Cos’è il carcere”, letto e analizzato durante il corso.

Il carcere non si può riformare. Mai. Si può solo disprezzare, odiare, insultare, per incepparne la sua opera di distruzione umana.” Salvatore Ricciardi)

Lavoro svolto dal corso di editoria digitale.

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