DOSSIER LEGNOCHIMICA (1): Per un cambio di marcia e direzione

DOSSIER LEGNOCHIMICA (2): Un’azienda, mille nomi

del Coordinamento Territoriale #DecidiamoNoi

La Legnochimica nasce come azienda specializzata nell’attività storica del gruppo guidato dalla famiglia Battaglia, ovvero l’estrazione del tannino dal legno affiancata dalla produzione di pannelli attraverso la lavorazione del legno detannizzato. La storia della Legnochimica non è molto dissimile da quella di tante altre attività produttive calate dal Nord per beneficiare degli incentivi pubblici, per poi scappare con il malloppo, lasciando dietro di sé solo macerie.
Tutto ha inizio quando il gruppo piemontese, come nella migliore tradizione risorgimentale, rileva un’impresa per la lavorazione del legname che operava a Gesuiti di San Vincenzo La Costa e la trasferisce, successivamente, in contrada Lecco di Rende, in pianura. Nell’effettuare questa operazione trovò la strada spianata ed i tappeti rossi srotolati dal Comune che si propose anche come mediatore con i tanti piccoli contadini proprietari dei terreni e facilitando il rilascio di tutti i documenti e le autorizzazioni necessarie all’inizio dell’attività produttiva. Questa apertura di credito fu dovuta alla convinzione che lo stabilimento poteva essere una buona occasione per lo sviluppo industriale di una cittadina prevalentemente agricola come quella di Rende. La scelta politica va chiaramente calata nel periodo storico in cui fu presa. La Legnochimica in effetti darà lavoro e reddito ad oltre 400 operai nel periodo più florido e se consideriamo le famiglie e l’indotto si parla di migliaia di persone; tantissime in una piccola cittadina di provincia in rapida espansione.

Questo il racconto dell’operazione fatto direttamente da Francesco Principe detto “Cecchino” che ha rivestito per un lungo periodo la carica di Sindaco di Rende:

Un altro esempio della capacità della nostra Amministrazione di antivedere il futuro della città è offerto dal caso della trasformazione in area industriale di alcune centinaia di ettari del Comune di Rende appartenenti alla famiglia Giorgelli. Quando io ero sottosegretario all’agricoltura avevo la delega per la piccola proprietà contadina e, trovando nei fondi per piccola produzione contadina, notevoli quantitativi di denaro, progettai quella che nella mia e nella memoria collettiva si conserva con il nome di «operazione Giorgelli». Eravamo a metà degli anni sessanta e io pensai che grazie ai fondi messi a disposizione molti contadini di Rende potevano acquistare una certa quantità di terra per formare delle piccole proprietà contadine capaci di essere produttive e di soddisfare le esigenze delle famiglie degli agricoltori che le avrebbero acquisite. Naturalmente contattai Giorgelli, per avere il suo assenso, e lui manifestò il suo accordo inizialmente per cinquecento ettari. Si passò così alla valutazione di questo terreno che fu effettuata da un Ispettorato all’area. Secondo questa valutazione il plesso a ettaro sarebbe stato di 2.500 lire, prezzo che Giorgelli accettò senza problemi. Per me si trattava allora di trovare i contadini che avrebbero acquistato le quote disponibile e proporne loro tale acquisto. Sulle terre di Giorgelli vi erano alcuni mezzadri che inizialmente erano riottosi verso la proposta di acquistare ciascuno venticinque ettari di terreno che rappresentava la dimensione minima per poter creare una impresa produttiva. Come già dicevo i primi a essere interessati dovevano essere i mezzadri che vivevano sul terreno di Giorgelli. Ancora una volta, come già per l’Università io proposi l’operazione di acquisto senza che i diretti interessati ne comprendessero immediatamente l’importanza. A questi mostravo che non solo il mutuo quarantennale era bassissimo, ma che finanche le spese notarili del passaggio di proprietà erano pagate, per cui loro non avrebbero perso niente neanche se si fossero dimostrati non in grado di ammortizzare le poche spese sostenute, e avessero ceduto la proprietà, la quale nel frattempo si valorizzava. Devo ricordare che a questo proposito ebbi contro l’allora Partito Comunista che, probabilmente non aveva ben chiari i termini della questione. A questo proposito io fui costretto a rivolgermi con più di un comizio ai mezzadri per riuscire a convincerli. E bisogna dire, nonostante tali peripezie, riuscii a trovare un numero di mezzadri d’accordo sulla operazione. Ognuno di questi comprò i 25 ettari di terreno a un tasso bassissimo e con un mutuo quarantennale. Non dovettero farsi carico delle spese notarili, e in più ognuno di loro acquisiva il prodotto agricolo che sulle terre acquistate era già maturo in quel momento e un numero di capi di bestiame attinente alla quantità di terreno acquistata. Era il mese di maggio del 1966 e insieme al terreno i mezzadri divennero proprietari di cinquemila quintali di grano e di oltre 280 capi di bestiame che furono divisi equamente, a seconda della quantità di terreno che ognuno di essi aveva acquistato. Dopo qualche tempo, dovendo ampliare la zona industriale di Rende per l’aumento delle richieste di locazione per usi non agricoli, io pensai proprio all’ex zona di Giorgelli che in questo modo divenne veramente una grande occasione per produrre utili a chi aveva comprato il terreno a 2.500 lire il metro quadrato e che di sicuro lo avrebbe rivenduto a un prezzo molto ma molto più elevato. Anche nel caso del progetto di una zona industriale, in un comune dalla vocazione agricola quale era Rende, inizialmente raccolsi soltanto dubbi da parte dei miei concittadini; però finii con l’avere ragione, tanto che quella zona oggi è sede di tante iniziative industriali e commerciali” (1).

A confermare la storia, ma vista e vissuta da un’altra angolazione, è un ex operaio della Legnochimica in un’intervista del 2016 pubblicata su un giornale locale online:

“Il barone Giorgelli – racconta l’operaio – favorì i propri contadini vendendo loro i terreni con un mu- tuo quarantennale, subito dopo arrivarono i piemontesi che minacciarono tutti di esproprio. All’epoca Cecchino Principe, già sindaco di Rende, era sottosegretario all’Agricoltura, ricordo che fu lui a salutare di buon grado l’arrivo della fabbrica sollecitando l’approvazione della legge che consentiva al barone di vendere e ai Battaglia di Legnochimica di acquistare buona parte di contrada Lecco. Siamo così passati da un padrone all’altro. Appena si cedeva il terreno venivano dopo un’ora a demolire la casa. Io però da qui non me ne sono andato, ho conservato un piccolo terreno e ci vivo. E’ la mia terra. Il danno ambientale qui è più grave di quello che si pensi. C’è una falda acquifera che attraversa l’area per intero da Nord a Sud seguendo la linea della faglia sismica che taglia la Valle del Crati da Rogliano a Tarsi. Per distruggere la nostra agricoltura, inoltre, hanno reciso tonnellate di castagni nella nostra Sila creando dissesto idrogeologico diffuso. È quella la legna dalla quale estraevamo masonite e tannino” (2).

Il fatto che si tratti di una azienda chimica non è affatto casuale, poiché il Sud è stata la grande discarica industriale dove si sono trasferite tutte le aziende più inquinanti, come le raffinerie o, appunto, le aziende chimiche e metallurgiche, spesso operanti in settori in declino. Inutile ricordare, su tutti, il caso di Crotone e degli scarti di lavorazione della Pertusola usati come materiale da costruzione o “concime” in agricoltura!
Una buona sintesi della storia dello stabilimento è contenuta in un’interrogazione dei senatori Gaetti, Morra, Taverna, Moronese al Ministro dell’Ambiente di cui riportiamo un pezzo:

“nel 1969, quando una ditta piemontese, grazie agli incentivi di Stato, ha rilevato una società locale impegnata nella lavorazione del legno, da cui estraeva il tannino da utilizzare poi nel settore conciario. Nei primi anni ’80, forse a causa del termine dei primi aiuti di Stato, l’impresa ha cominciato a mostrare i primi evidenti segni di crisi; l’attività non avrebbe avuto la fattibilità economica necessaria per restare autonomamente sul mercato e per questo, nel corso degli anni, avrebbe fatto ricorso a continui ed abbondanti contributi pubblici, che hanno permesso ogni volta di riprendere alcune lavorazioni sospese e di porre momentaneamente termine al periodico ricorso alla cassa integrazione; in virtù di un contributo pubblico ammontante a 40 miliardi di lire, nel 2000 viene realizzata una centrale a biomasse che prevede l’utilizzo degli scarti legnosi. Ciò non ha comunque evitato che nel 2003 cessassero tutte le attività della Legnochimica che, dopo aver venduto nel 2001 l’impianto a biomasse e nel 2002 parte dei macchinari e un terreno di proprietà, per una cifra intorno ai 38 milioni di euro, nel 2006 ha deciso tramite l’assemblea dei soci di porre in liquidazione la società; la materia prima utilizzata per l’estrazione del tannino era costituita da legno di castagno, mentre per la produzione dei pannelli venivano impiegati legni bianchi e castagno detannizzato. Il processo di lavorazione per l’estrazione del tannino produceva, oltre al tannino, residui di fibre di legno che, al termine delle fasi di lavorazione, venivano accumulati nel piazzale di pertinenza dei capannoni di proprietà della Legnochimica, siti in contrada Lecco; l’intero processo era sostenuto dall’impiego di una matrice acquosa per la cottura delle fibre di legno, che al termine delle fasi di lavorazione in cui il ciclo di produzione si articolava, veniva scaricata in bacini artificiali per la decantazione delle fibre di legno vergine, per poi essere riciclata in testa alla linea. I residui di lavorazione, black liquor, venivano quindi sversati sul terreno, all’interno dei mega-bacini privi delle più elementari norme di isolamento; la mancata impermeabilizzazione degli stessi bacini artificiali provocherà, in seguito, l’inquinamento delle falde acquifere; il ciclo di produzione dei pannelli in fibra di legno ad umido consisteva nella cottura a vapore del castagno detannizzato e del legno bianco per ottenere una massa fibrosa che, sottoposta a pressatura e contestuale cottura, veniva trasformata in pannelli. Anche questo processo era assistito da acqua che, oltre ad essere veicolo delle fibre legnose, era necessaria per la cottura delle stesse. L’acqua veniva eliminata durante la fase di pressatura delle fibre e successivamente convogliata nei laghi artificiali, per essere poi immessa in circolo in testa alla linea di produzione; da immagini satellitari risalenti alla fine degli anni ’90, si può certificare l’esistenza di 8 laghi artificiali creati dall’azienda. Oggi, con lo stesso strumento, si possono individuare solo 3 laghi presenti sul territorio, gli altri 5 sono stati interrati senza aver intrapreso nessuna operazione di bonifica e, addirittura, sopra 2 sono stati edificati alcuni capannoni” (3).

NOTE

  1. ivista Calabrese di Storia del ‘900 – 1, 2013, pp. 49-72
  2. https://www.quicosenza.it/news/le-notizie-dell-area-urbana-di-cosenza/rende/68414-ex-operaio-legnochimica-svuotavamo-le-vasche-nel-crati-i-pesci-morivano-ed-era-vietato-parlare-di-inquinamento
  3. http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Sindisp&leg=17&id=942304
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1 thought on “DOSSIER LEGNOCHIMICA (3): il gruppo in Calabria

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